Onorevoli Colleghi! - L'eutanasia, intesa come qualsiasi azione od omissione che per la sua stessa natura, o nelle intenzioni di chi la compie, procura la morte di un soggetto allo scopo di eliminare ogni dolore, rappresenta non solo un fondamentale interrogativo di ordine etico, ma anche un essenziale problema del nostro ordinamento giuridico, che deve trovare opportune risposte politiche e normative da parte delle istituzioni rappresentative. Risolvere il problema dell'eutanasia significa, infatti, dare una risposta in termini positivi al quesito della morte, alla luce del comune sentimento a favore nella «vita» intesa nel suo significato più ampio. Ogni giorno, infatti, medici, pazienti e familiari dei pazienti si trovano ad affrontare scelte difficili nella lotta contro la malattia, scelte che spesso si scontrano con la tentazione al cedimento e alla rinuncia alla vita. Tali decisioni non solo incidono sulle condizioni di vita del singolo individuo, ma assumono un significato peculiare anche nei confronti del nostro sistema penale, della deontologia medica e, in un significato ancora più ampio, nei confronti del concetto di tutela della salute e della vita promosso dal nostro ordinamento costituzionale.
      Partire dalla constatazione che un divieto di eutanasia risulta già previsto dal nostro ordinamento può non sempre essere sufficiente. È significativo, infatti, che, al di là dell'articolo 36 del codice deontologico medico, l'eutanasia non sia esplicitamente considerata dal nostro ordinamento, bensì venga di volta in volta ritagliata con un'operazione interpretativa all'interno dei reati già previsti dal codice penale. Tale lacuna legislativa, tuttavia, rischia di essere colmata con interpretazioni di dubbia legittimità dai magistrati, come dimostrato dall'ormai famoso caso

 

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dell'ingegner Forzatti, assolto dall'accusa di omicidio volontario premeditato dopo aver staccato la spina del respiratore al quale era attaccata la moglie.
      La constatazione di questa importante lacuna dell'ordinamento è pertanto all'origine della presente proposta di legge. Una proposta di legge volta non solo a vietare qualsiasi forma di eutanasia, ma anche a specificare i fondamentali diritti dei pazienti nei confronti di quelle pratiche mediche che operano a cavallo tra la vita e la morte. Parlare di «dolce morte» è infatti in larga misura inappropriato quando, dietro alcune iniezioni letali, giace non tanto un sentimento di «pietà» verso il paziente, quanto un interesse economico volto alla riduzione delle spese sanitarie.
      Punto fondamentale di partenza della proposta di legge è pertanto la specificazione che l'adozione di un'ampia nozione di eutanasia, estesa sia all'eutanasia passiva che a quella attiva, consente di far rientrare l'istituto all'interno di tre fattispecie del nostro ordinamento penale: il reato di omicidio di cui all'articolo 575, il reato di omicidio del consenziente di cui all'articolo 579 e il reato di istigazione o aiuto al suicidio di cui all'articolo 580 del codice penale. Tale ricostruzione generale recupera un orientamento ormai consolidato nel nostro sistema penale vigente, per cui la pietà per la sofferenza della vittima non costituisce causa di giustificazione del reo.
      Il riferimento all'una piuttosto che all'altra fattispecie penale sarà determinato dal fatto che l'interruzione della vita sia determinata materialmente dal paziente medesimo con il supporto del medico curante ovvero da un soggetto terzo (in particolare, un familiare del paziente o il personale medico-sanitario), nonché dalla circostanza che l'eutanasia sia stata praticata con il consenso del paziente ovvero in assenza di questo. È importante specificare che il consenso sarà ritenuto rilevante solo come possibile attenuante della pena, ma non potrà essere utilizzato come elemento di assoluzione del colpevole del reato. Ai fini della valutazione delle cause attenuanti, sarà considerato rilevante solo un consenso serio, esplicito, non equivoco e perdurante (caratteristiche queste da tempo indicate come qualificanti del consenso dalla dottrina), al fine di evitare che semplici manifestazioni estemporanee di intenti del paziente - non corrispondenti ad un'effettiva manifestazione di volontà - siano strumentalizzate dal reo.
      Da questo fondamentale punto di partenza discendono poi altri importanti corollari, che vengono appositamente disciplinati nella presente proposta di legge. In primo luogo, la riflessione che un divieto di eutanasia ispirato al concetto della dignità della vita in tutte le sue forme non può non accompagnarsi ad un'esplicitazione del parallelo divieto all'accanimento terapeutico, inteso come ricorso ad interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. L'ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato o un miglioramento della qualità di vita, infatti, non solo è vietata dal codice di deontologia medica, ma rappresenta una pratica non conforme al nostro concetto di tutela della salute come benessere psico-fisico della persona. Frequenti sono infatti i casi di malattie terminali o croniche in cui l'accanimento nelle cure, non essendo in grado di offrire nessun vantaggio in termini di miglioramento delle condizioni di vita del paziente, si traduce in una negazione al paziente del fondamentale diritto alla qualità della vita. Ovviamente non è possibile stabilire sotto il profilo legislativo quali casi richiedano una sospensione delle cure nel rispetto della dignità del paziente: è tuttavia in questo spazio d'azione che si deve esplicare la libertà discrezionale del medico, chiamato ad operare e a decidere secondo le sue conoscenze tecnico-scientifiche e secondo la sua deontologia professionale. Proprio in tali circostanze di malattie fortemente invalidanti e terminali è allora necessario limitare l'attività medica all'assistenza morale e alle cure volte a ridurre al minimo le sofferenze del paziente.
      In secondo luogo, un altro corollario del divieto di eutanasia è rappresentato dalla valorizzazione delle cure palliative
 

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nell'ambito dei programmi sanitari regionali. Se utilizzate correttamente, le cure palliative possono ridurre al minimo i casi non trattabili in cui si potrebbe essere tentati dal ricorso all'eutanasia; le due pratiche, infatti, sono speculari e antitetiche, perché, cedendo all'eutanasia, si tolgono dignità e risorse ai progressi compiuti nell'ambito delle cure palliative.
      Principio trasversale a tutte queste previsioni è quello del rispetto dell'autodeterminazione, che non è altro che una manifestazione delle libertà fondamentali riconosciute dal nostro ordinamento costituzionale e che deve essere opportunamente riconosciuto nei confronti di ogni pratica medica. L'informazione sui trattamenti sanitari possibili, in questa direzione, è il primo irrinunciabile passo verso la garanzia al paziente di una effettiva presa di coscienza del suo stato di salute. Ovviamente, la libertà in questione deve essere garantita anche in senso negativo, rispettando cioè l'eventuale manifestazione di volontà del paziente di non essere informato sul suo effettivo stato di salute.
      Un ulteriore passo verso il rispetto dell'autodeterminazione del paziente è rappresentato dalla prassi del consenso, richiesta, in armonia con le previsioni della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva dalla legge n. 145 del 2001, nei confronti di ogni pratica medica, ad esclusione dei trattamenti sanitari obbligatori e dei casi di emergenza. In particolare, il consenso scritto del paziente o, qualora questo non sia in condizione di intendere e di volere, dei suoi familiari, è richiesto obbligatoriamente per la sospensione dei trattamenti che si trasformano in accanimento terapeutico.
      Ovviamente, il consenso del paziente non può rappresentare un vincolo al medico ad effettuare trattamenti contrari al nostro ordinamento (come l'eutanasia) o ai princìpi di scienza e di coscienza (è questo il caso di alcuni trattamenti sperimentali). In questo ambito rientra anche la specificazione che eventuali «testamenti biologici» del paziente sono considerati privi di alcuna validità giuridica, non solo perché spesso non è possibile appurare se la volontà espressa a suo tempo dal paziente persista al momento dell'eventuale sospensione della vita, ma anche perché la pratica si scontra evidentemente con quel concetto di tutela della vita che intendiamo perseguire.
      Riconoscere un diritto al suicidio, infatti, rappresenta un paradosso, perché il suicidio, pur non essendo punito nel nostro ordinamento per l'impossibilità materiale di condannare il colpevole, corrisponde ad una pratica palesemente contraria al generale orientamento del nostro sistema giuridico a favore della vita.
 

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